Il rinnovo e la proroga dei contratti di lavoro a tempo determinato a seguito del cd. “Decreto Agosto”
8 Ottobre 2020Esecuzione dei contratti in periodo di lockdown
16 Dicembre 2020A cura dell’Avv. Marco Di Rito
La crisi sociale, sanitaria ed economica provocata dal Covid-19 fa emergere, tra gli altri, il problema per imprenditori, fornitori e parti contrattuali in genere, dell’impossibilità di adempiere gli obblighi contrattuali anche e soprattutto alla luce delle rigide restrizioni imposte dall’autorità governativa, da ultimo con il D.P.C.M. 24 ottobre 2020. Analizziamo, dunque, alcune garanzie a tutela delle parti contrattuali danneggiate dalla crisi, nello specifico i due “istituti giuridici” dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione e della risoluzione del contratto per forza maggiore.
Impossibilità sopravvenuta della prestazione
L’art. 1256 c.c. disciplina le ipotesi di “impossibilità definitiva e temporanea della prestazione” stabilendo che quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore, l’obbligazione contrattuale si estingue. Se, l’impossibilità, è temporanea, finché essa perdura, il debitore non è responsabile del ritardo. Tuttavia, se l’impossibilità perdura, l’obbligazione contrattuale si estingue quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione o il creditore non ha più interesse a conseguirla.
Naturalmente, come ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione, la liberazione del debitore per impossibilità della prestazione si può verificare solo in presenza di due elementi:
- uno obiettivo, cioè l’impossibilità di eseguire la prestazione stessa;
- uno soggettivo, cioè l’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione.
Pertanto, se il debitore non ha adempiuto la propria obbligazione nei termini stabiliti dal contratto, non può invocare l’impossibilità di eseguire la prestazione con riferimento a un ordine o divieto dell’autorità amministrativa (factum principis), che fosse ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, se non ha sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità (cfr. Cass. civ., III, 8 giugno 2018, 14915). È evidente, dunque, che se un contratto è stato stipulato in epoca antecedente ai provvedimenti governativi dovuti al Covid-19, eventuali impossibilità di adempiere le prestazioni contrattuali potrebbero cadere nella previsione dell’articolo 1256 del codice civile.
Inoltre, la Corte di Cassazione ha stabilito che, affinché l’impossibilità della prestazione esoneri il debitore dalla sua responsabilità, è necessaria la prova della non imputabilità, anche remota, di tale evento impeditivo, poiché non è rilevante, in assenza della prova della non imputabilità, la configurabilità o meno del “factum principis” (cfr. Cass. civ., III, 25 maggio 2017, 13142).
Forza maggiore
L’ordinamento giuridico italiano non dà una nozione precisa dell’ipotesi di forza maggiore. Generalmente la si intende come quell’evento imprevedibile e inevitabile al quale non è possibile resistere (vis maior cui resisti non potest). Tuttavia l’art. 1467 c.c., in tema di contratti con prestazioni corrispettive, ne indica alcune caratteristiche affermando che, nei contratti a esecuzione continuata o periodica o a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa a causa di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458 c.c.. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.
Come stabilito dai supremi Giudici, l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare la risoluzione del contratto richiede la sussistenza di due requisiti:
- da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto;
- dall’altro, la riconducibilità dell’eccessiva onerosità sopravvenuta a eventi straordinari e imprevedibili, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale.
Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva poiché qualifica un evento in base a elementi come la frequenza, le dimensioni, l’intensità che sono misurabili (e quindi possono consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità è soggettivo poiché fa riferimento alla fenomenologia della conoscenza. L’accertamento del giudice di merito circa la sussistenza dei caratteri evidenziati è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi (cfr. Cass. civ., III, 19 ottobre 2006, 22396).
La situazione di crisi determinata da Covid-19 e dai conseguenziali provvedimenti governativi direttamente incidenti sulle libertà individuali, contiene i caratteri oggettivi della straordinarietà e, per i contratti antecedenti allo scoppio della crisi, anche della soggettiva imprevedibilità. Pertanto, non apparirebbe errato invocare la forza maggiore se, a causa di tale crisi, la prestazione contrattuale fosse divenuta eccessivamente onerosa, ovviamente fermo restando l’onere della prova e la valutazione caso per caso.
Di conseguenza, la pandemia determinata dal Covid-19 è certamente idonea a giustificare un’ipotesi di inadempimento di obbligazioni contrattuali precedentemente assunte. E ciò sia quando la prestazione contrattuale diventa definitivamente o temporaneamente impossibile e sia quando la prestazione di una parte contrattuale diventa eccessivamente onerosa. Naturalmente le conseguenze saranno diverse sia nell’uno che nell’altro caso e l’attore dovrà provare le proprie pretese.
In conclusione, pur non potendo generalizzare, in quanto ogni caso farà storia a sé, la legge italiana offre ai contraenti gli appigli normativi per superare le ipotesi di responsabilità per inadempimento, con le conseguenti richieste risarcitorie, dovute a Covid-19. Non solo: tali norme permetteranno comunque alle parti contrattuali di negoziare nuovi accordi modificativi di quelli originari, non pregiudicando in toto gli obiettivi che si volevano raggiungere con il contratto eventualmente risolto.
LA LOCAZIONE COMMERCIALE
Andando ad analizzare uno dei contratti maggiormente interessati dagli effetti da Covid-19, alla luce dell’attuale scenario di emergenza nazionale, occorre effettuare alcune considerazioni. In primis va precisato che non esistono disposizioni che hanno imposto la sospensione del pagamento del canone locativo nella locazione di immobili destinati a uso diverso dall’abitazione.
In particolare, è noto che il D.L. n. 18/2020 (c.d. Cura Italia) ha previsto:
- all’art. 65, in favore dei conduttori, un credito di imposta pari al 60% del canone di locazione, per un periodo trimestrale, di
immobili rientranti nella categoria catastale C/1– Negozi e botteghe. Su tale aspetto, l’Agenzia delle Entrate (cfr. Ag. Entrate, circ.
3 aprile 2020, n. 8/E), tra i chiarimenti sulle norme del Decreto Cura Italia, ha fornito anche delle delucidazioni sul credito di
imposta per le locazioni commerciali di negozi e botteghe di cui all’art. 65, d.l. n. 18/2020: il credito d’imposta, pari al 60% del
canone di locazione, è riconosciuto solo sui canoni effettivamente pagati; un canone di locazione non pagato non produrrà il credito
d’imposta in quanto la norma intende ristorare il conduttore del canone versato a fronte della sospensione dell’attività di impresa in
questo periodo; - all’ art. 91, una norma (comma 6-bis), applicabile anche ai contratti di locazione, in base alla quale “il rispetto delle misure di
contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223
c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o
omessi adempimenti” (anche in questo caso, la ratio del norma è orientata alla valutazione successiva dell’eventuale inadempimento del
debitore).
Pertanto, interpretando le disposizioni, il conduttore di una attività commerciale non è autorizzato a sospendere il canone di locazione; salvo poi, in ambito contrattuale, valutare le conseguenze dell’inadempimento/ritardo del debitore ai sensi degli artt. 1218 e 1223 c.c.
In sostanza, le attuali norme non prevedono alcuna sospensione generalizzata dei canoni né per i contratti a uso commerciale o “diverso”, né per i contratti a uso abitativo (le pigioni risultano pertanto dovute ed esigibili dal locatore). Di conseguenza, com’era prevedibile, si sono sviluppati contenziosi in merito, a seguito dell’avvio di procedure per sfratto per morosità per i canoni non corrisposti da conduttori in difficoltà.
Sull’argomento si è espressa la Suprema Corte di Cassazione con la relazione n. 56/2020 che, nel verificare la possibilità di risoluzione dei contratti di locazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione ai sensi dell’art. 1463 c.c. ha individuato uno spazio molto limitato di utilizzo di tal strumento.
Infatti, secondo la Suprema Corte, seppur l’emergenza epidemiologica in corso, rappresenti certamente uno di quegli “accadimenti straordinari ed imprevedibili” che giustifichino la risoluzione del contratto, rendendo eccessivamente onerosa la prestazione contrattuale di una delle parti (conduttore), tuttavia il conduttore dovrà valutare con estrema attenzione se l’addivenire ad una risoluzione contrattuale rappresenti il proprio interesse di fronte alla situazione attuale.
Nella maggior parte dei casi, il conduttore avrebbe interesse a una riduzione del canone che gli consenta di continuare a esercitare la propria attività di impresa nell’immobile locato, piuttosto che dover individuare un nuovo immobile, seppur a un canone più appetibile, dove trasferire la propria attività di impresa, con tutti i disagi e costi indiretti che, in ogni caso ne deriverebbero.
La Corte di Cassazione prosegue sottolineando come il requisito della buona fede oggettiva rappresenti un punto cardine nell’esecuzione di ogni contratto (e quindi anche del contratto di locazione commerciale), evidenziando come l’ipotesi della rinegoziazione dei termini contrattuali possa essere uno strumento certamente utilizzabile in tale quadro economico, che le parti dovranno necessariamente utilizzare per riequilibrare le reciproche prestazioni contrattuali.
Sulla scia del pronunciamento della Corte di Cassazione si stanno muovendo anche i tribunali di merito. In tal senso, infatti, si segnala la pronuncia del Tribunale di Roma che con ordinanza del 27 agosto 2020, ha accolto le ragioni di un ristoratore che, con un ricorso d’urgenza, aveva chiesto la riduzione del canone di locazione per il periodo di chiusura forzata del proprio ristorante nei mesi del lockdown>/strong>, ottenendo una consistente riduzione del canone per tale periodo pari al 40% per il primo mese e al 20% per i mesi seguenti.
Nel prossimo futuro potremo verificare se si tratterà di un indirizzo che si consoliderà.
In conclusione, in mancanza di provvedimenti normativi in materia, il consiglio agli inquilini e proprietari rispetto a immobili utilizzati nelle attività nuovamente colpite da restrizioni, è quello di trovare un accordo per una riduzione del canone di locazione per il periodo in cui tali attività rimarranno gravate da limitazioni, in modo da evitare contenziosi di dubbio esito e, in ogni caso, nefasti per entrambe le parti.