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1 Febbraio 2023A cura dell’Avv. Marco Di Rito
Con la sentenza n. 1569 del 18 maggio 2021, la Corte di Appello di Milano è stata chiamata a decidere le sorti dell’impugnazione proposta dal fallimento di una società avverso la sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Milano dichiarava l’assenza di responsabilità della banca che aveva tratto vantaggio dall’illegittima attività di direzione e coordinamento posta in essere dalla capogruppo nei confronti della società controllata, poi fallita.
Ai giudici d’appello è stato demandato di pronunciarsi sull’interpretazione della responsabilità solidale prevista dall’art. 2497 comma 2 c.c. La disposizione, difatti, stabilisce che risponde in solido con la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento di società in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale “chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio”.
Si rende necessario, seppur brevemente, ricostruire la vicenda che ha indotto parte attrice ad attivare il giudizio avverso la banca al fine di ottenere una pronuncia che, accertando la responsabilità della medesima, riconoscesse all’attrice il risarcimento del danno per illecito extracontrattuale o, in subordine, per arricchimento senza causa.
La società capogruppo acquistava da una banca crediti di dubbia esigibilità, vantati dall’istituto di credito nei confronti di altra società, al loro valore nominale. Contestualmente a tale acquisto, tra una delle società controllata al 100% dalla capogruppo acquirente e la predetta banca veniva concluso un contratto di factoring in forza del quale la società controllata cedeva alla banca crediti di sicura solvibilità ottenendo rilevanti anticipazioni di credito. La liquidità così realizzata dalla società controllata veniva interamente trasferita, asseritamente senza causa, alla società capogruppo permettendo a tal ultima di provvedere al pagamento del corrispettivo dovuto alla banca in ragione dell’operazione di acquisto dei crediti di dubbia solvibilità, precedentemente precisata.
Tutte le anzidette operazioni venivano poste in essere da un’unica persona fisica che, rispetto alla società capogruppo, agiva in forza di procura speciale appositamente conferitale mentre, rispetto alla società controllata, agiva in qualità di amministratore unico della stessa.
In seguito al fallimento della società controllata, il curatore agiva in giudizio anche nei confronti della banca con cui era stato stipulato il contratto di factoring a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. e, in subordine, per arricchimento senza causa ai sensi dell’art. 2041 c.c.
Entrambe le domande venivano rigettate dal giudice del Tribunale di Milano sull’assunto secondo il quale non vi fosse prova che la banca avesse avuto piena contezza dell’abusività delle operazioni poste in essere dalla capogruppo e quindi del danno arrecato alla società controllata.
Il giudice di primo grado, nel rigettare le domande attoree, sosteneva che affinché potesse determinarsi una responsabilità extracontrattuale della banca sarebbe stato necessario un elemento soggettivo sorretto dal dolo o, quantomeno, dalla colpa grave, coincidente con un coefficiente di partecipazione all’inadempimento particolarmente pregnante. Non sarebbe stata sufficiente quindi, secondo il Tribunale di Milano, la mera conoscenza o addirittura la conoscibilità dell’illiceità della condotta posta in essere dalla capogruppo e quindi la responsabilità a titolo di concorso della banca nell’inadempimento.
Il fallimento della società pertanto promuoveva appello avverso la sentenza di primo grado sostenendo che il Tribunale aveva omesso di accertare il profilo della responsabilità extracontrattuale della banca con particolare riferimento alla responsabilità prevista dall’art. 2497, comma 2, c.c. la quale espressamente prevede che debba rispondere solidalmente dell’evento dannoso anche colui che abbia consapevolmente tratto beneficio dalla condotta abusiva prevista dal comma 1 della stessa disposizione.
La Corte di Appello di Milano accogliendo l’appello va ad affermare la responsabilità della banca ai sensi dell’art. 2497 comma 2 c.c. per il danno patrimoniale occorso alla società controllata in ragione della condotta posta in essere dalla holding.
In primo luogo, appare evidente come presupposto logico-giuridico dell’accertamento di una responsabilità ai sensi dell’art. 2497, comma 2, c.c. sia costituito dalla previa verifica che la condotta posta in essere dalla società che esercita attività di direzione e coordinamento determini una violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate nonché un pregiudizio alla redditività ed al valore della partecipazione sociale delle società controllate.
L’operazione, come posta in essere nel caso concreto sottoposto all’attenzione della Corte d’Appello di Milano, non poteva che essere correttamente inclusa tra le condotte pregiudizievoli descritte dall’art. 2497 comma 1 c.c. determinandosi un abuso nella direzione e coordinamento delle attività della controllata da parte della società holding.
In ragione dell’interpretazione fatta dalla Corte d’appello di Milano dell’art. 2497 comma 2 c.c., la disposizione identifica ben tre diverse forme di responsabilità per la banca che viene coinvolta nella condotta di mala gestio della società capogruppo e che si differenziano tra loro in ragione del grado di consapevolezza e quindi di partecipazione nel compimento del fatto lesivo e del conseguente danno per la società controllata.
L’elemento distintivo delle tre forme di partecipazione (e quindi di responsabilità della banca), come previste dall’art. 2497 comma 2 c.c., è costituito dal grado di partecipazione della banca all’inadempimento della società controllante.
La prima ipotesi si caratterizza per il concorso illecito della banca nella commissione di operazioni infragruppo illecite o intraprese in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale che abbiano determinato la lesione del patrimonio societario. Tale responsabilità prevede un coefficiente di partecipazione all’illecito particolarmente pregnante da parte dell’istituto di credito, da potersi certamente ricondurre al dolo.
La seconda forma di responsabilità viene denominata “della banca fiancheggiatrice”.
In queste ipotesi la banca, pur non partecipando attivamente all’attività di direzione e coordinamento delle società, concorre a commettere l’illecito fornendo alla società controllante gli strumenti necessari al fine di commettere gli illeciti posti in essere dagli amministratori che esercitano eterodirezione sulle società finanziate.
In questi i casi, il grado dell’elemento soggettivo è sicuramente minore di quello previsto e richiesto per la prima forma di responsabilità, ma può comunque inquadrarsi nell’elemento della colpa dell’ente creditizio che, consapevolmente, fornisce i mezzi necessari alla controllante per porre in essere condotte in violazione degli obblighi imposti, determinando la responsabilità ai sensi dell’art. 2497 comma 1 c.c.
Infine, l’ultima forma di responsabilità è quella della banca c.d. “approfittatrice”, in cui la banca non apporta alcun contributo causale alla condotta abusiva posta in essere dalla holding nell’attività di direzione e coordinamento mantenendo, pertanto, un comportamento sostanzialmente neutro. Ciò nonostante, l’ente di credito trae ugualmente un beneficio consapevole dall’illecito commesso ai sensi dell’art. 2497 c.c. dalla società capogruppo.
In questo ultimo caso si determina un ulteriore alleggerimento dell’elemento soggettivo richiesto ai fini della responsabilità della banca alla partecipazione nell’illecito.
Nell’operare la distinzione appena descritta, la Corte d’Appello di Milano arriva a qualificare quale grado minimo di partecipazione quello della mera consapevolezza di stare traendo beneficio da una condotta che deve essere qualificata come di mala gestio ai sensi dell’art. 2497 comma 1 c.c.
Pertanto, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte di Appello di Milano, affinché possa determinarsi la responsabilità del terzo di cui all’art. 2497 comma 2 c.c. è sufficiente la semplice consapevolezza della banca della potenziale criticità dell’operazione infragruppo dalla quale l’ente creditizio sta traendo un beneficio “nei limiti del vantaggio conseguito”.
La disposizione permette quindi di sopperire ai casi in cui la condotta posta in essere dalla banca non possa essere qualificata ai sensi dell’art. 2043 c.c. in quanto l’ente non abbia contribuito in maniera diretta alla causazione del pregiudizio, non avendo apportato alcun contributo causale.
L’obiettivo della norma è quello di sanzionare anche quelle condotte meramente passive o neutre che però si connotano per la consapevolezza della potenzialità lesiva dell’attività di gestione e che altrimenti rimarrebbero impunite anche a fronte di un vantaggio economico conseguito dal soggetto “approfittatore”.
I giudici di appello milanesi hanno precisato che, in circostanze come quelle del caso, la posizione della banca potrebbe dirsi ulteriormente aggravata dal fatto che, in ragione della propria qualifica di operatore professionale, l’ente creditizio si trova nella condizione obbligata di orientare le proprie azioni verso il rispetto dei principi di sana e prudente gestione dovendo, pertanto, valutare le operazioni che vengono proposte ed eseguite in maniera attenta e precisa, verificando tutte le informazioni necessarie al fine di evitare di rendersi partecipi di condotte illecite. In particolare, si rileva come viene imposto alla banca di svolgere un’attività di verifica e controllo rispetto all’operazione di trasferimento della liquidità ottenuta dalla controllata alla controllante. La banca avrebbe dovuto accertare quantomeno che l’operazione di trasferimento del denaro avesse una giustificazione, quantomeno plausibile.
Pertanto, all’esito dell’interpretazione fornita dalla Corte di Appello di Milano è stato riconosciuto quale presupposto per fondare la responsabilità dell’istituto di credito, o comunque di un terzo, ai sensi dell’art. 2497, comma 2 c.c. la mera consapevolezza della potenziale illiceità o comunque della criticità dell’operazione che la holding stava ponendo in essere nell’esercizio della sua attività di direzione e coordinamento.